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Commento al Vangelo della V domenica di Pasqua (Gv 15,1-8)

DiLaParteBuona

Apr 26, 2024

«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

 

 

Il più bel frutto della vigna

Mentre con la prima lettura prosegue la presentazione degli snodi salienti del libro degli Atti (e in questa domenica il passaggio è l’accoglienza di Saulo subito dopo la sua vocazione, grazie all’amicizia di Barnaba), e nella seconda troviamo un’esortazione alla concretezza dell’amore e ad aver fede nel Signore, il vangelo ci offre un estratto dal lungo discorso d’addio di Gesù nella versione giovannea dell’ultima cena.

Molto si dovrebbe dire a proposito del verbo menein, “rimanere”, che solo nella pagina del vangelo di oggi appare sette volte. In tutto il Quarto vangelo ricorre trentatré volte (contro le sole due nel vangelo di Marco, ad es.), a dire l’importanza teologica di tale espressione, che compare per la prima volta sulla bocca del Battista, per descrivere lo Spirito che “rimane” su Gesù (Gv 1,32).

Ci soffermiamo invece sull’altra simbolica, quella della vite. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nel libro quindicesimo delle Antichità giudaiche, racconta che entrando nel Tempio di Gerusalemme, appena passate le porte d’ingresso al santuario, si poteva assistere a uno spettacolo mozzafiato: «In cima a tutto, sotto i fregi, si estendeva una vite d’oro con grappoli pendenti, una meraviglia, per dimensioni e lavorazione, a vedere con quanto prezioso materiale l’opera era stata effettuata». Forse quell’installazione si trovava nel luogo più sacro dell’ebraismo perché Israele è spesso rappresentata, nel Primo Testamento, come una vite (o una vigna), come si legge in Os 10,1-2, Is 5,1-7, o Ger 2,21. Nel Salmo 80,9 si dice che il Signore ha «sradicato una vite dall’Egitto», esprimendo la cura con cui Dio si è occupato del suo popolo.

Ma ogni volta che Israele viene raffigurato come vigna o vite, nelle sue vicissitudini storiche quel popolo è posto sotto il giudizio di Dio a causa della sua corruzione, e spesso perché – nonostante le attese di chi lo “coltiva” – non porta frutti buoni. Ecco perché «è possibile che la descrizione di Gesù come la vera vite sia pensata per contrastare il fallimento della vigna-Israele quando non ha adempiuto alla chiamata di Dio a portare frutti» (G.R. Beasley-Murray). Da questa affermazione non possiamo però dedurre una teologia della sostituzione di Israele. Se Gesù, per i cristiani, è il più bel frutto della vite che è Israele, e questo frutto non nasce dal nulla, ma ha origine e si sviluppa in quel vigneto che è il popolo dell’alleanza, allora si deve stare attenti all’interpretazione dell’aggettivo “vera” che connota la vite.

Scrive Renzo Infante nel suo commentario al Quarto vangelo: «La duplice specificazione (“quella vera”) ha fatto spesso ritenere che l’evangelista voglia qui contrapporre Gesù, la vite autentica, a Israele, la vita piantata e amata da Dio, che per la sua infedeltà avrebbe fallito il compito affidatogli (cfr. Is 5,1-7). Il testo però non dice questo. Come la manna era un autentico dono dal cielo, immagine tipologica di un pane che può essere definito vero senza implicare con ciò stesso la falsità della manna celeste, allo stesso modo Gesù è la vera vite, senza che questo comporti la non genuinità di Israele. Gesù racchiude in sé tutte le prerogative positive dell’antica vigna, è il naturale compimento e sviluppo in cui si compiono tutte le attese legate a Israele» (Giovanni. Introduzione, traduzione, commento, San Paolo 2015).

Stando uniti a questa “vera vite”, come i tralci al suo fusto, si può far frutto. Gesù porta frutto perché legato al Padre (il vignaiolo), così, anche per i cristiani, tanto quanto si è uniti a Gesù, si può combattere contro il fallimento, quello che spesso caratterizza l’esperienza umana, e si può contrastare la triste possibilità di buttare via la vita, e, anzi, di essere “buttati via” nel fuoco. È quanto dice la Colletta: «O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace».

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